La lettura di Daniele Fior è un flusso di coscienza dirompente, ironico, intimo e burrascoso; un fiume inafferrabile e inarrestabile, a cui il delicato e matematico pianoforte di Alessandro Scolz fa da contrappunto.
Questo romanzo non è un’allegoria (come Melville sottolineava ardentemente), quanto invece lo specchio di quello che riconosciamo come allegoria in esso; Moby Dick è così carico di vita e frutto di una così pregna esperienza reale profonda, che sono la nostra vita e i significati che le attribuiamo a trovare una corrispondenza in esso; a fondersi nella immensa bianca vastità del suo corpo bianco.
Moby Dick è un’esperienza incontenibile e fuggevole, nella vastità di pensieri e congetture, nell’ironia e nel dramma del racconto, nell’ intreccio dei personaggi e delle loro vite; talmente inafferrabile e difficile da contenere nella sua interezza, che pare sfuggente come un sogno in cui abbiamo soggiornato per un po’ di tempo.
“Essa è l’immagine dell’inafferrabile fantasma della vita; e questo è la chiave di tutto.”
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